Via Ghedini 6
Oggi festeggiamo la lotta che ha portato alla liberazione dal nazifascismo. Ma che cos’era il nazifascismo nell'Italia occupata? Una barbarie continua, un costante eccesso di violenza, ma anche un insieme di pratiche quotidiane, anonime e burocratiche sulle quali riflettere. In questo momento la destra di governo continua, dai fortini dei giornali, della maggioranza parlamentare e degli incarichi di governo del Paese, a parlare di pacificazione tra italiani per arrivare a equiparare fascismo e antifascismi. Tale equiparazione, che equivale a un annacquamento delle aspirazioni per un mondo libero, giusto e solidale e a un’immagine assolutoria del fascismo e dell’essere fascisti, non è possibile. La pace col fascismo non si può fare, sono i muri delle nostre città a ricordarcelo. Siamo qui per ricordare le responsabilità collettive e individuali, con le quali ogni giorno dobbiamo fare i conti. Siamo davanti a uno dei luoghi di questa città che ci ricordano, come sempre, che il perdono per i crimini commessi non è possibile, e che non si tratta solo di rastrellamenti, di stragi e fucilazioni, ma anche di quotidiano esercizio del potere a vantaggio di un progetto di sottomissione e sterminio. Sotto le insegne del fascismo del ventennio e di quello repubblicano operarono non solo fanatici in camicia nera, ma anche obbedienti servitori dello Stato.
Alla presa del potere da parte delle forze armate tedesche e alla restaurazione del fascismo nel settembre-ottobre 1943 segue l’ultima tappa del percorso iniziato con l’approvazione delle leggi razziali del 1938, firmate dal re Vittorio Emanuele III e applicate da piccoli e grandi burocrati che negli anni successivi si nascosero dietro la fedeltà alla monarchia o alla patria per minimizzare le proprie responsabilità. Senza uno zelante censimento delle persone ebree non sarebbe stato possibile, nel 1943, fare quello che la polizia italiana fece in un luogo come questo e ovunque in città. In base all’ordine di polizia del 5 dicembre 1943 il ministro degli interni Buffarini Guidi ordina ai prefetti di procedere all’arresto della popolazione ebraica. Il fascismo repubblicano, che la destra di governo tenta di riabilitare, compie un altro passo di avvicinamento al nazismo, arrivando a definire ufficialmente la popolazione ebraica come straniera e nemica dello Stato, come nella legislazione razziale tedesca. Ricevuto l’ordine dal ministero dell’interno, i prefetti diramano l’ordine alle questure; i questori fanno mettere mano agli elenchi di censimento della popolazione ebraica da parte dei commissariati di polizia: è il poliziotto comune che obbedisce agli ordini dei suoi superiori, operando vari arresti, scaglionati nel corso del mese di dicembre. La collaborazione degli apparati di polizia italiani è essenziale alla politica nazista di sterminio, anche se non è così roboante, pure se non è da film. Comincia tutto con delle "misure di pubblica sicurezza". È un termine ombrello: nell'Italia del 1943 un criminale comune, un truffatore, un oppositore politico, un ebreo, può essere arrestato con la stessa motivazione.
In via Como, oggi via Ghedini, si trovavano diverse donne, anziane e di origini ebraiche, qui rifugiatesi dall’ospizio israelitico di piazza Santa Giulia, reso inagibile dai bombardamenti. Il 3 dicembre 1943 la polizia italiana vi fa irruzione, arrestando venti di loro. Vengono quindi tradotte presso le carceri nuove di corso Vittorio, e qui detenute per settimane con la generica “motivazione di pubblica sicurezza”. Non è la carità, o il ripensamento del capo della polizia a deciderne il rilascio: è il calcolo politico. Troppo imbarazzante era ammettere che la polizia, facendo il suo lavoro, aveva arrestato venti donne ultrasettantenni formalmente nemiche dello Stato. Né fu una vera liberazione per delle donne sole, in età avanzata e ancora reperibili proprio in base agli elenchi del censimento ebraico. Nel corso dei mesi alcune di loro, almeno quelle sopravvissute a settimane di durissima detenzione, vengono nuovamente arrestate e rinchiuse alle Nuove, questa volta nell’apposito braccio che le autorità tedesche e naziste avevano creato per scioperant, partigian, oppositor politic e appartenent a diverse identità religiose, etniche o razziali. Dal braccio tedesco partivano le persone detenute verso i campi di concentramento e di sterminio in Germania. Al braccio tedesco alcune di queste donne tornano anche grazie all’attività degli italianissimi funzionari della questura.
Il nazismo e il fascismo hanno concretamente messo in atto un piano di sterminio su scala continentale: in Italia gli apparati repubblichini arrestarono migliaia di persone, organizzarono e gestirono campi di concentramento e di transito, contribuirono attivamente allo sterminio di sei milioni di persone.
Se è possibile e giusto riappacificare i popoli, superando gli odi che fascismo e nazismo hanno usato per contrapporli a favore di una nuova solidarietà internazionale, non è possibile, e sarebbe disumano, mettere pace tra il fascismo, i fascisti in camicia di vario colore e il resto del mondo che questi hanno cercato di plasmare con la violenza della deportazione, dello schiavismo e dell’omicidio di massa. Il fascismo era, è, sarà sempre questo, e non c’è Marrone, Lollobrigida, Larussa o Meloni che potrà farcelo dimenticare. Chi pretende pacificazione, sostenendo come pochi giorni fa che “il 25 aprile è una festa come le altre” pretende accondiscendenza verso la violenza, conformismo a una storia falsa e mistificata, spregio alla memoria delle persone arrestate in questo palazzo, de rastrellat del ghetto di Roma, de combattent e de deportat di fede ebraica, di origine rom e sinta, di appartenenza politica repubblicana, socialista, liberale, comunista e cattolica che si opposero come poterono alla barbarie.
Il fascismo non è un’opinione come le altre, è una cultura politica del dominio incompatibile con la vita, come il capitalismo.
Nemmeno dobbiamo pensarlo come un corpo estraneo, una parentesi nella storia, un fatto concluso che non può ritornare: ritorna ogni volta che ci rifiutiamo di chiamarlo con il suo nome, di indicare le gambe sulle quali cammina e le bocche attraverso le quali parla. Antifascismo, oggi come ieri, è opposizione sociale al patriarcato, alla violenza di genere, alla violenza dei confini e degli stati nazionali, alla povertà e all’ingiustizia sociale.