Marcello Piantanida - Corso Regio Parco 24
Il 20 aprile 1951 La Stampa annuncia, per il giorno 28, il rientro a Torino e in Piemonte delle salme di sette partigiani caduti in Jugoslavia. L’arrivo è previsto per le dieci di sera. Insieme ai feretri dei sette passeranno in città, per poi proseguire verso Firenze, i resti di Carlo e Nello Rosselli, tra i fondatori di Giustizia e Libertà, antifascisti internazionalisti, combattenti in Spagna assassinati dai fascisti francesi nel 1937. Oltre alle bare di Pietro Magni, Giovanni Strola, Mario Graziano, Attilio Bombard, Giovanni Enrico Raverdino e Domenico Melazzi, c’è anche quella di Marcello Piantanida, che dalla stazione viene trasferito nel cimitero monumentale, a pochi passi dalla sua abitazione. La bara e il corteo funebre percorrono il viale alberato e si inoltrano nel cimitero, diretti al campo della gloria. Marcello va a unirsi ai 1125 compagni e compagne di lotta che, nelle parole di Thomas Mann riportate sulla lapide all’ingresso del campo, sono “l’avanguardia di una migliore società umana”.
Marcello è andato avanti. Marcello, nato il 1° aprile 1922, abitava in corso Regio Parco 24: da civile aveva lavorato come riparatore di metalli e pasticciere, nel regio esercito aveva servito come marinaio, e in Jugoslavia era caduto da partigiano. Era caduto il 2 febbraio 1945 nei pressi di Tovarnik, tra la Croazia e la Serbia, in quello che era il fantoccio Stato Indipendente della Croazia, fortemente voluto da Mussolini al momento di spartirsi con gli altri alleati dell’Asse la Jugoslavia e governato dal movimento fascista degli Ustasa. La regione di Tovarnik era attraversata dalla linea Sirmia, l’ultima linea di resistenza nazista all’avanzata sovietica nei Balcani. Marcello combatte e muore sulla linea del fronte poche settimane prima che l’Armata rossa e l’Esercito di liberazione jugoslavo la sfondino, avanzando nei Balcani ancora occupati dai nazisti.
Marcello è andato lontano. Non sappiamo molto di Marcello. Non siamo mai venut davanti casa sua, preferendo altre storie durante le nostre celebrazioni del 25 aprile, ma quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario dell’armistizio dell’8 settembre tra il regno italiano e gli Alleati. Un armistizio che aveva infranto il patto sociale basato sulla fedeltà ai re di Casa Savoia. Il re-soldato Vittorio Emanuele III, che non disdegnava di mostrarsi in pubblico in divisa da campo, getta quella stessa divisa per riparare nottetempo nell’Italia già in mani angloamericane, lasciando nel caos più completo le forze armate sparse in tutta Europa, dalla Francia all’Unione Sovietica, e l’intera popolazione. Centinaia di migliaia di soldati e ufficiali si trovano, al pari dei loro fratelli e sorelle rimaste a casa, senza ordini, senza indicazioni, senza informazioni. Ognuno deve pensare per sé, assumersi nuove e inedite responsabilità, scegliere da che parte stare. Quella dell’armistizio, infatti, è la data in cui un intero Paese viene messo davanti alla polverizzazione di qualsiasi struttura statale; è la data in cui l’Italia in quanto nazione, un concetto tanto abusato quanto fittizio, cessa di esistere e torna a essere un campo di battaglia tra eserciti diversi; è anche la data in cui a ciascun si pone davanti il drammatico momento della scelta: continuare la guerra? Perché? Con chi? Da che parte stare?
Per i soldati italiani, operai e contadini, l’annuncio dell’armistizio equivale al famoso “tutti a casa”, ma come si torna a casa? Si può scappare; ci si può consegnare ai vecchi alleati o a quelli nuovi, nella speranza di essere rimpatriati; si può continuare a combattere, gettando simbolicamente la propria divisa. A differenza del re e di quei generali che gettandola si erano caricati addosso una indicibile vergogna, degna conclusione di vent’anni di complicità con il regime, i giovani che la propria divisa la gettano, si assumono una responsabilità enorme.
Marcello a ventitré anni si prende la responsabilità di scegliere da che parte stare. Quella della responsabilità è una bandiera che la politica inalbera ogni volta per giustificare sé stessa e la sua sopravvivenza, una bandiera che dobbiamo tornare a fare nostra. Ci chiedono di essere responsabili intendendo di non disturbare, di non fiatare, di vivere per lavorare senza protestare, di accettare mediazioni e compromessi che mettono a rischio le nostre stesse vite e i nostri affetti. Non si protesta così, non è questo il modo giusto, siete troppo estremisti, siete troppo arrabbiati: siate responsabili. Ma assumere su di sé le scelte e le responsabilità che queste comportano, ogni giorno, è un concetto troppo importante che le partigiane e i partigiani, figli e figlie di un sistema politico volto all'azzeramento del pensiero critico, dell'assunzione di responsabilità, della politica, ci hanno insegnato, per concederlo così. Ogni giorno dobbiamo continuare a scegliere cosa vogliamo, dove stare, con chi e perché.
Responsabilità è scegliere di continuare a lottare, combattere sapendo che cadere prigionieri espone alla tortura, alla deportazione o alla morte. Prendere decisioni per se stess tenendo conto delle conseguenze che queste hanno per le altre persone, per i compagni e le compagne in banda, per la popolazione che fa affidamento sulla tua presenza, ricostruire legami comunitari forti e complici, immaginare e realizzare nel presente un mondo diverso.
Marcello è tornato. Essere responsabile per se stesso e scegliere ogni giorno di continuare a combattere e alla fine pagare di persona è stato il modo che Marcello ha trovato per tornare a casa. Il 28 aprile 1951 a Torino e in tutta Italia è sciopero: scioperano metalmeccanici, dipendenti pubblici, tramvieri: l’alta adesione del trasporto pubblico obbliga praticamente chiunque ad andare a piedi. È un mondo, sotto tanti aspetti, diverso dal nostro: i quartieri sono ancora quartieri operai che come si sono opposti alla barbarie nazifascista ora lottano ancora con le armi dello sciopero, contro i padroni che negli anni Cinquanta tentano di sgretolare il movimento operaio; le sezioni di partito lavorano a pieno ritmo, si discute di tutto, si fa di tutto, si sogna di tutto. Chissà, se al suo arrivo la bara di Marcello ha percorso il viale alberato diretto al cimitero seguita da occhi gonfi e ali di folla che si ricordavano del loro vicino ventitreenne, il pasticcere, il meccanico, il marinaio che non era più tornato dalla Jugoslavia. Anche se Marcello aveva combattuto lontano da casa, aveva combattuto per la sua casa. Nella disgregazione dello Stato seguita all’8 settembre si torna a combattere per qualcosa di molto più concreto dei miti: tornare a casa, la piccola patria, le amicizie e le conoscenze che si sono lasciate indietro e quelle che si sono costruite nel disastro della guerra, la piccola comunità di quartiere in città, di villaggio in montagna, la grande comunità di classe, la grande famiglia umana. Avrà avuto in mente le piazze, la scuola, il fiume, le passeggiate, l’officina, la pasticceria, i padroni e gli sfruttati, l’osteria, un amore lasciato indietro a cui inviare la foto che lo ritrae coi capelli impomatati e il sorriso furbetto, avrà tremato ogni giorno pensando alle bombe che piovevano sul quartiere, alle ronde notturne, ai coprifuoco. E si sarà detto che bisognava continuare, e ha continuato fino alla fine, fino al ritorno a casa e oltre. Perché un oltre c’è, per chi lotta come Marcello, Vera e Libera, Lorenzo, è un oltre che sta nelle compagne e nei compagni, nelle amiche e negli amici che lo salutarono il 28 aprile 1951 e che lo salutano oggi.
La violenza della società patriarcale e capitalista ci scuote e ci interroga; la quotidianità ci pone continuamente davanti a delle scelte. La possibilità di interrogarci sul nostro posto nel mondo, di scegliere la nostra parte, di assumere su di sé le conseguenze delle nostre scelte, di rinnovarle quotidianamente, sono il regalo più bello che una generazione cresciuta nel tempo della non scelta ci ha fatto.
Siamo qui per farci domande, dice Alice Walker. Siamo qui per scegliere, e solo scegliendo possiamo trovare il nostro posto nel mondo, che è di fronte alla violenza in ogni sua manifestazione, con chi ci precede nella lotta. Oggi siamo chiamat a lottare, come li descrisse Ada Gobetti, “contro interessi che avrebbero cercato subdolamente di risorgere, contro abitudini che si sarebbero presto riaffermate, contro pregiudizi che non avrebbero voluto morire: tutte cose assai più vaghe, ingannevoli, sfuggenti. E si trattava inoltre – concludeva – di combattere tra di noi e dentro noi stessi, per chiarire, affermare, creare; per rinnovarci tenendoci vivi, e ognuno avrebbe dovuto faticosamente, tormentosamente, attraverso diverse esperienze, assolvendo compiti diversi, umili o importanti perseguir la propria luce e la propria via”. Ha scritto Benedetta Tobagi, a proposito di questa lotta, che “per chi ha trovato il proprio significato, il proprio posto nel mondo, ciò per cui sente di voler vivere, la morte è solo una parte – inevitabile, ma non spaventosa – di una buona vita. Una morte tutta intessuta di vita, che ha il sorriso e il tocco morbido di un abbraccio ritrovato”. Oggi siamo qui ad abbracciarci e ad abbracciare Marcello e tutti i compagni e le compagne cadute, che trovando e scegliendo il loro posto nella lotta per la vita contro la morte sono diventate più forti della morte: sono pezzi di cuore che, se continueremo a scegliere, a cospirare, a sognare insieme, nessuno potrà mai portarci via.