A Lucio Pernaci
Ci troviamo non davanti a una lapide, ma a una pietra d’inciampo, dedicata a Lucio Pernaci, al civico 35 di corso Regio Parco.
Quando viene convocato in questura a inizio marzo del ‘44, Lucio Pernaci ci va perché è convinto di ricevere informazioni sui figli sfollati in Abruzzo. Lucio è un operaio, abita qui con sua moglie Adele, è nato a Caltanissetta e ha da poco compiuto quarantaquattro anni.
Qualche giorno prima, tra il 28 febbraio e l’otto marzo, decine di migliaia di impiegati e impiegate nell’industria torinese e in tutta l'Italia occupata hanno scioperato nonostante le minacce di rappresaglia delle autorità nazifasciste. Lo sciopero è stata un’importante azione della classe operaia contro il regime di Salò e contro i nazisti: un affronto che non può essere tollerato. Tra le settantamila persone che a Torino hanno partecipato allo sciopero c’era anche Lucio. L’ennesimo operaio dalla testa dura, un altro immigrato meridionale che non sa stare al suo posto, come tanti che dalla sua terra si sono trasferiti nel grande triangolo industriale. Nel 1927, da impiegato delle ferrovie in Sicilia, aveva rifiutato l’iscrizione al PNF ed era stato licenziato. Si era quindi spostato a Torino, dove aveva trovato lavoro alla FIAT Ferriere. Le Ferriere erano state acquistate dalla famiglia Agnelli nel 1917, in pieno conflitto mondiale, e da allora la crescita degli stabilimenti di corso Mortara non aveva conosciuto interruzioni. Al momento dello sciopero ci lavorano in 4.577. Per raggiungere il posto di lavoro Lucio percorre ogni mattina tre chilometri per le strade della Barriera, insofferente all’occupazione nazifascista, alla fame, alla guerra in cui le camicie nere l’hanno portata. Lucio non è famoso. Fa parte delle SAP e mostra coraggio al pari di tanti colleghi, perché ci vuole coraggio a scioperare coi carri armati tedeschi per le strade, i presidi armati e le spie fasciste negli stabilimenti, i rastrellamenti, ma non vogliamo pensarlo come un eroe. Le sue preoccupazioni sono probabilmente le stesse di qualunque altro operaio: il salario, tirare a campare, pensare ai figli sfollati di cui non ha più notizie a causa dei combattimenti sul fronte. Quando viene convocato in questura attraversa la città e si presenta, come ordinato, alla polizia. Agli agenti dichiara le sue generalità e da questi viene trattenuto. Gli comunicano che è in arresto. Le spie, e in alcuni casi gli stessi padroni, hanno fatto il lavoro sporco per i tedeschi, compilando elenchi di lavoratori e lavoratrici che hanno preso parte allo sciopero. Lo sciopero non può essere perdonato: i fascisti l’avevano detto. Se scioperate ci saranno conseguenze. A pagare immediatamente sono 400 operai, e Lucio è tra quelli. Viene condotto a Porta Nuova e caricato su un treno diretto in Austria, a Mauthausen. Ricorda Carlo Chevallard nel suo diario: «Una scena pietosissima stamane; transitano per corso Vittorio Emanuele II diretti in stazione i camion degli operai arrestati in seguito agli scioperi e che vengono deportati in Germania. Sono stati prelevati dagli stabilimenti il giorno stesso della ripresa del lavoro e non è stata data loro la possibilità di rivedere le loro famiglie: dalle carceri vanno direttamente in stazione».
I vagoni piombati da Torino, da Genova e da Milano verranno aggregati a un treno proveniente da Firenze con lo stesso carico di deportati, diretto verso il Brennero e l'Austria.
Mauthausen è un campo che il regime nazista ha edificato nel 1938. Lo Stammlager di Mauthausen, con i suoi quarantanove sottocampi sparsi in tutta l’Austria, è classificato come "classe 3", ovvero campo di punizione e di annientamento delle persone detenute attraverso il lavoro. Lucio, come tante e tanti, attraversa l’undici marzo del ‘44 la cosiddetta “porta mongola”, l’ingresso del campo, riceve una uniforme a strisce con un triangolo rosso con ricamata la dicitura It, a indicare il suo status di prigioniero politico di nazionalità italiana, e un numero di matricola (57336) e viene avviato a turni di lavoro massacranti nella vicina cava di granito, sotto costante minaccia delle armi.
La guerra, come sempre, è un grande affare, per i nazisti in particolar modo: è stato notato che l'enorme sforzo bellico aveva mobilitato tanti soldati da aver praticamente dissanguato il comparto produttivo del Reich. Ovunque arrivassero quindi, i reparti della Wehrmacht e delle SS andavano in cerca non solo di risorse materiali, ma anche di "materiale umano" a basso costo indispensabile a mantenere in vita la produzione. Da questo quadro di rapina su scala continentale apparati del partito e grandi capitalisti trassero tutto il beneficio che poterono trarre con le proprie imprese. Nel 1938 le SS avevano fondato, per esempio, la Deutsche Erd - und Steinwerke GmbH (DEST). Insieme ad altre sigle del capitalismo tedesco come la J.A. Topf und Söhne e la Kori, che realizzano i forni crematori, o la Steyr-Daimler-Puch AG, attiva nei comparti automobilistico e armiero, beneficiano direttamente in termini economici della manodopera schiavile che rastrellano in tutto il continente. In questo vortice di tecnologia, logistica e violenza ci finisce anche Lucio. Da Mauthausen viene spostato in uno dei tre sottocampi di Gusen, tutti nell’arco di cinque/dieci chilometri dal campo principale. Resiste, come la maggior parte dei suoi compagni di detenzione, per qualche mese. A Mauthausen e nei sottocampi dipendenti, come dice lo stesso Zierei ai prigionieri appena arrivati, si va per morire, e non si dura in media più di tre o quattro mesi. È vanto di alcune guardie saper individuare il momento esatto in cui i reclusi diventano “musulmani”, quando prosciugati dalla fatica e incapaci di lavorare cadono a terra “come musulmani in preghiera”. In quel momento il prigioniero viene allontanato dal gruppo ed eliminato, tramite iniezione letale, colpo di pistola, annegamento o qualsiasi altro modo di uccidere che ecciti la fantasia delle guardie, quindi gettato nel forno crematorio. Non sappiamo come sia morto Lucio. Possiamo immaginare però, in linea con le testimonianze e gli studi, che al momento del suo assassinio pesasse non più di trenta/quaranta chili, e che il suo cadavere fosse delle giuste dimensioni per gli sportelli dei forni crematori, costruiti secondo le misure standard per accogliere corpi rattrappiti, per risparmiare soldi, materiali e spazio. Il corpo di Lucio, dopo aver lottato per la fine della guerra, e dopo essere stato punito costretto a servire l’industria bellica tedesca come schiavo, passa dal camino il 27 giugno 1944.
Ricordare è dovere, perdonare è impossibile!