Ad Angelo Autino
Anche quest’anno torniamo davanti a via Reggio 17, non solo per parlare di Angelo Autino, cui è dedicata la targa che vedete, ma anche dei suoi assassini, del contesto in cui maturò l’omicidio di questo falegname, e del quartiere che ne fu testimone.
La sera del 25 febbraio 1945 tre uomini del RAP - Raggruppamento Anti Partigiani, si presentano a casa dei coniugi Autino, Angelo ed Eleonora. Angelo, nato nel 1877, non è un partigiano né risultano suoi contatti con le formazioni. Eppure, con la scusa di una perquisizione, i tre militi, impegnati in una ronda nel quartiere di borgo Rossini, si fanno aprire la porta. Uno dei tre punta la pistola contro Eleonora, impedendole di muoversi, mentre gli altri due entrano nella camera da letto. Qui trovano Angelo, indisposto a letto. Mettono a soqquadro la stanza, e Angelo capisce che qualcosa non quadra quando vede uno dei due intascare un orologio e del tabacco. Si alza, cerca di mettersi in mezzo perché sospetta - giustamente - una rapina.
I tre rapinatori, coperti dalla divisa e col volto nascosto dietro dei foulard, sono Giuseppe Vessio, Salvatore Landi e Pietro Ruffolo. Ruffolo sta tenendo sotto tiro Eleonora mentre, nella camera da letto, Vessio e Landi vengono alle mani con Angelo. Partono diversi colpi di pistola, che colpiscono mortalmente Angelo e feriscono Landi all’addome. A sparare è Vessio, il quale esce dalla stanza e insieme a Ruffolo lascia di corsa l’appartamento, seguito a breve distanza dal suo commilitone ferito, che morirà sulle scale. Immediatamente tutto il quartiere è in allarme, richiamato dalle urla di Eleonora. Quando sopraggiungono la polizia e i militi della GNR, la Guardia Nazionale Repubblicana, questi ultimi assicurano che se riusciranno a mettere le mani sui rapinatori li fucileranno sul posto, per compiacere la signora che ha appena perso il marito. Poco dopo il quartiere è di nuovo turbato da altri spari: i due fuggiaschi sono tornati indietro per recuperare il corpo del loro complice, ma sono incappati nei militi che aprono il fuoco, e sono costretti a fuggire. Le autorità militari della GNR fanno presto, avendo un cadavere a disposizione, a dare un nome ai due fuggiaschi: sono appunto Ruffolo e Vessio, i quali erano stati visti uscire dalla caserma con Landi. Nelle carte della procura militare della RSI Vessio viene descritto come un forzato, uno del quale non ci si poteva fidare. Negli anni abbiamo sempre raccontato la storia di una rapina compiuta con l’arma della divisa che si indossava, descrivendola a ragione come una garanzia di impunità. Ci eravamo accontentati delle ricostruzioni giornalistiche della vicenda. Eppure sarebbe bastato interrogare meglio le carte del processo cui sarebbero stati sottoposti, a guerra finita, Ruffolo e Vessio, per aggiungere elementi ancora più inquietanti, indicativi della durezza del contesto e dolorosi. Elementi che chiamano in causa il dolore di una comunità, e la necessità di ricostruire una verità che soddisfacesse le persone coinvolte.
Che fine avevano fatto Vessio e Ruffolo, dopo la rapina? Avevamo immaginato che, come altri militi della RSI, fossero stati coperti dai loro superiori. In verità, le autorità militari furono molto brave a incriminare da subito i due, prontamente identificati, e a fornirne un’immagine assai poco lusinghiera, scritta nero su bianco nel fascicolo processuale. A carico di Vessio c’erano già due arresti per furto, uno in casa dello zio Michelangelo, custode dello stabile di via Reggio 17 e amico di Angelo. Era frequentando la casa dello zio che Giuseppe Vessio aveva conosciuto i coniugi Autino, e ne aveva potuto mappare le abitudini. Ma fino al ‘45 non aveva pensato, o forse non aveva avuto l’occasione, di rapinarli. Non solo perché fino al febbraio ‘45 non girava la voce che Angelo avesse intascato una notevole somma in qualità di sinistrato di guerra, ma perché fino al febbraio ‘45 Vessio, in verità, non si trovava a Torino. Soprattutto, Giuseppe Vessio non era, come pensavamo, un fascista incallito, un giovane fanatico. Nato nei pressi di Parigi nel 1921, cresciuto nel quartiere popolare di Vanchiglia questo ragazzo aveva disertato - non sappiamo perché - prima dell’armistizio, nascondendosi. All’8 settembre si era unito alle formazioni partigiane, prima tra Genova e l’alessandrino, quindi nell’astigiano. Proprio nei pressi di Asti, durante un rastrellamento, era stato arrestato dai tedeschi e poi rilasciato, nel maggio del ‘44. Aveva ripreso quindi contatto con le SAP torinesi, le Squadre di Azione Patriottica, fino a quando, nel febbraio ‘45 - come lui stesso avrebbe dichiarato - era stato arrestato dai repubblichini e, a quanto pare, posto davanti a un’alternativa assai comune in quei mesi: la deportazione in Germania, per il lavoro obbligatorio, o l’arruolamento nei reparti della Repubblica Sociale. Vessio era, in questo senso, un forzato, come l’avrebbero definito i suoi superiori. E da forzato aveva organizzato il colpo a danno degli Autino, fruttato poi un orologio, qualche lira e del tabacco. Morto Angelo, sia Vessio che Ruffolo, sul cui passato sappiamo di meno, si erano rifugiati nuovamente tra le fila partigiane. E dai partigiani Vessio era stato arrestato, subito dopo l’insurrezione. I suoi stessi compagni, ricevuta la denuncia di Eleonora Autino, l’avevano convocato presso il commissariato di Vanchiglia, dove l’avevano smascherato: era lui l’assassino di Angelo. Per Vessio si sarebbero nuovamente aperte le porte delle galere. Ruffolo l’avrebbe seguito diversi anni dopo, nel 1957: fu individuato in Belgio, dove era legalmente emigrato dal suo paese natale, Rende in provincia di Cosenza, e dove lavorava come minatore. Alla fine furono entrambi condannati per la rapina e l’omicidio di Angelo Autino.
I giornali che seguirono il processo omisero il passato partigiano di Giuseppe Vessio, che pure non ne fece alcun mistero in sede di dibattimento, forse anche in maniera strumentale. Le cronache si limitarono a parlare di un omicidio compiuto da due membri del RAP. Per una semplice distrazione, per una questione di spazio disponibile sulle colonne della cronaca giudiziaria? Perché bisognava farla finita con il passato? Perché si voleva confortare un rione scosso dalla guerra e dal suo corollario di violenze quotidiane?
Di questa storia non sappiamo ancora tutto, forse non lo sapremo mai. Eppure è proprio da questa targa che abbiamo iniziato il nostro percorso il 25 aprile di quattro anni fa. Ogni anno impariamo qualcosa di nuovo, che rende ancora più complessa, più vera, la storia di Angelo e dei suoi assassini. Abbiamo più strumenti per ricostruire e analizzare la vicenda, eppure, per chiunque si dichiari antifascista, restano ancora tanti dubbi, tanta inquietudine nell’andare sempre più a fondo nel baratro della guerra e nella luce della Liberazione che cerchiamo ogni anno di raccontare. Dubbi e inquietudine che pensiamo sia ingiusto non esprimere. Siamo partiti dalla storia di un falegname assassinato da tre fascisti per arrivare, dopo quattro anni, a un falegname assassinato da un giovane che si trovò a vestire una divisa fascista (e forse anche a partecipare più o meno occasionalmente alla Resistenza) per i casi della guerra. Per non finire in galera, per non fare la fame, per non rischiare la vita, per spirito di avventura o per ansia di guadagno, chissà, Giuseppe Vessio scelse e scelse più volte cose diverse. E alla storia di questo falegname e dei suoi assassini torniamo ogni anno con sempre più domande che, per ogni risposta in più che riusciamo a trovare, speriamo rendano sempre più giustizia ad Angelo, a Eleonora, al quartiere intero. Senza perdere la convinzione che è il fascismo ad aver precipitato il mondo in un buco nero nel quale le etichette fanno ancora molto comodo. Vogliamo andare sempre più a fondo nelle storie che incontriamo e che decidiamo di raccontare. Non vogliamo accontentarci di un’eredità e di una memoria pubblica parziali e cristallizzate in una narrazione lecita e legittima settantasette anni fa, ma insufficiente oggi per noi che vogliamo comprendere e lottare con ancora più forza contro la violenza fascista.