4 anni in Largo Vitale 

Abbracciare la militanza come forma di vita
 
In occasione del quarto anno di occupazione pubblichiamo la traduzione di un contributo dall'Ecuador.
Il testo del collettivo Desde el Margen rispecchia tante delle riflessioni che hanno attraversato Manituana nell'ultimo anno.
In particolare negli ultimi mesi, tra convergenze e intersezionalità, verso un nuovo anno di lotte.

Abbracciare la militanza come una forma di vita.
Sentire nostalgia per qualcosa che non viviamo, stupirsi di processi che non abbiamo conosciuto, ma che ci trasmettono un vincolo.
Ci fa pensare che il tempo è ovviamente trascorso, le cose sono cambiate, ma le oppressioni e le violenze no.
Ancora gli stessi di sempre, "Quelli di sopra", continuano a rubarci i sogni.
Sappiamo e sentiamo che qualcosa bisogna fare di fronte a ciò ed è qui che ci chiediamo: perché sentiamo la militanza come qualcosa di lontano nella storia?
E interrogarsi sulla pratica militante ci porta non a una risposta, ma a porci più domande.
Esiste una pratica militante come stile di vita? Che cos'è la militanza? Come costruiamo una militanza rivoluzionaria nel presente? Che senso ha la nostra vita?
Domande che in un contesto in cui l'individualismo, l'indifferenza, l'attivismo liberale, l'accademia estrattivista e sbiancata, insieme all'alto costo della vita, l'aumento della violenza e della disuguaglianza, il dover sopravvivere di fronte a tanta precarizzazione, si sono incaricati di instaurare un'egemonia dove la militanza organica diventa un problema che non permette di raggiungere il "successo"; un hobby, un'avventura momentanea.
Per questo, per la maggior parte di chi è parte delle generazioni che non hanno vissuto quei tempi in cui si è visto trionfare le rivoluzioni, dove si sono vissute rivolte e grandi movimenti di liberazione, dove militare era una pratica quotidiana, soprattutto per la gioventù, ora è qualcosa di estraneo.
Come se non ci corrispondesse tutto quello che succede, come se non avessimo strutture patriarcali, coloniali e capitaliste che ci stanno uccidendo.
E con il discorso che pensare e scommettere su processi rivoluzionari fa parte di modelli vecchi e obsoleti, ci stiamo condannando a una vita vuota, dove le ingiustizie (se non ci colpiscono direttamente in faccia) non ci fanno male, o diventano importanti solo il tempo in cui sono di tendenza su Twitter.
Una vita in cui finiremo con i nostri corpi-mente rotti, consumati, in cambio del raggiungimento di ciò che ci hanno fatto credere sia il successo.
La verità è che, anche se questo panorama si vede e si percepisce desolante - perché lo è - siamo alcunə, in molti territori, che ancora scegliamo di credere, sognare e costruire.
Poiché nessuna vittoria è stata vissuta senza dolore, senza perdite e senza sconfitte nel cammino. Ed è proprio qui che il nostro vincolo diventa imprescindibile.
Il vincolo dellə compagnə che hanno vissuto un po' più da vicino quelle epoche in cui si lasciava tutto affinchè il popolo fosse libero, ché siano guida e memoria viva.
Quello dellə giovani compagnə, per essere non solo forza, non solo corpo, ma voce, creatività, nuovi sguardi.
Guardiamo e impariamo dai processi di liberazione pensati dalle autonomie - dalla non presa del potere all'interno degli Stati-nazione che esistono ora - e che ci danno speranza.
Rivoluzioni vive come quella che resiste in Rojava, e che ha insegnato una lotta diretta contro tutto ciò che costituisce lo Stato-nazione; ma, soprattutto, ha messo al centro della rivoluzione la liberazione delle donne.
L'esperienza zapatista ci ha dato luce su come costruire dal basso, dal silenzio e contro l'oblio.
E così come vediamo squarci dell'attualità, vediamo anche le luci lasciate dallə compagnə dei processi precedenti; e chiaramente mettiamo in discussione e critichiamo varie pratiche di questi modelli, ma non da una superiorità morale, ma come qualcosa di necessario per reinventare strumenti, saper fare analisi, per imparare dagli errori e trasformare ciò che si deve trasformare.
Perché è evidente che ora le lotte sono diverse, che c'è più da guardare, perché il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo esistono in tutte le relazioni e forme che abitiamo.
Per questo è necessaria una militanza che cerchi di cambiare tutto.
Voler creare altri mondi implica conoscere, ascoltare, leggere e imparare da tutte queste altre esperienze.
Implica guardare tutto ciò che si è costruito dai movimenti sociali, dalle donne, dalle dissidenti, dalle resistenze dei popoli indigeni e originari.
Significa chiedere tutto ciò che serve.
Significa capire che si tratta non solo di cambiare le strutture economiche, ma anche le persone; combattere l'egemonia in tutta la sua dimensione.
Per costruire un'organizzazione e una base ideologica è necessario avere dibattiti interni, riflessioni, consenso, formazione politica e per tutto ciò è necessaria una militanza organica e la pratica della pazienza.
Perché molte volte, andando al ritmo della congiuntura e delle situazioni immediate (a cui ci ha abituato l'attivismo), non si sono rafforzate basi solide.
Se non siamo chiari su cosa vogliamo e su come vogliamo costruire, se non c'è questa convinzione, individuale e collettiva, i compromessi saranno fragili.
Finché non arriverà qualcosa di meglio, non si otterrà nessun cambiamento profondo o qualche impatto collettivo.
Quindi, anche se ora la militanza non è una pratica quotidiana per la maggior parte di noi, che la assumiamo come uno stile di vita, continueremo a camminare e lavorare perché la libertà per la quale lottiamo sia contagiosa.
Dal basso e a sinistra - come diranno lə zapatistə- noi aggiungiamo anche dal cuore.
Perché questo che facciamo, lo facciamo per amore della vita, per una vita libera e degna; e per questo non ce la faremo da solə.
Tornando a una delle domande del principio, possiamo dire che la militanza rivoluzionaria, sulla base di ciò che abbiamo imparato e costruito, è recuperare l'essenza di chi siamo, analizzare la mentalità dominante che abita ogni persona, che opprime e reprime; e che quando avremo la volontà e l'impegno di combatterla e trasformarla, non ci sarà più ritorno, poiché entreremo in un costante scontro che si può solo portare avanti, e difendere solo collettivamente; perché non dobbiamo aspettare che la rivoluzione trionfi per cominciare a vivere come vogliamo; giustamente, perché la rivoluzione abbia successo, dobbiamo trasformarci in collettivo.
Queste parole non cercano di essere lette da un ego di sinistra che pretende di sapere tutto.
Scriviamo perché in diverse occasioni siamo profondamente attraversati dal sentirci solə, sentirci "fuori dall'epoca" per aver osato sognare, o che stiamo tradendo il nostro ruolo ufficiale del dovere essere; forse altrove qualcuno o vari sentiranno lo stesso.
E ora sappiamo che non siamo solə, e che dobbiamo anche goderci e vivere il processo di questo cammino: della alegre rebeldía, e farlo assieme a quellə compagnə che nonostante avessero tutto contro hanno deciso così.
Il desiderio di costruire altri mondi passa anche attraverso quelle persone che non ci sono più, ma la cui convinzione fa parte del vincolo.
Per lə compas che in questo stesso momento sono in guerra, dando la loro vita per la liberazione, a loro e a tutte le persone che verranno, non possiamo deluderli.